di Gianmarco Gabrieli , pubblicato il 28 giugno 2013 su www.BergamoNews.it e su www.italiafutura.it
Oggi, in tempi in cui il lavoro scarseggia per tutti, fino a che punto la politica può spingersi per aiutare chi si trova in condizioni di sfavore, in particolare per collocarsi nel mondo del lavoro? Ma soprattutto, quali comportamenti la politica deve incoraggiare nei confronti delle generazioni più giovani?

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In Italia ci sono tanti problemi che meriterebbero di essere affrontati per primi, ma sicuramente c’è un’emergenza più urgente di altre che è la mancanza di lavoro.

Il Governo Letta se ne è fatto carico e ha emanato da qualche giorno un Decreto specifico con una serie di misure tra le quali degli incentivi economici per facilitare chi non possiede un diploma di scuola superiore, pardon di secondo grado, a trovare un lavoro.  Per quanto possa sembrare strano, non è destinato ad una piccola parte della popolazione, ma ad un’ampia fascia, in quanto in alcune regioni del Sud oltre la metà dei disoccupati ha la sola licenza media.

Purtroppo, questo Decreto Lavoro, imbevuto da un buonismo demagogico e da un egualitarismo formale, cerca di aiutare i più svantaggiati ma trasmette un messaggio fortemente diseducativo alle nuove generazioni: la scuola, l’impegno, il sacrificio non paga e i giovani brillanti con partita iva o con contratti a progetto siano condannati a continuare sulla strada della precarietà. Questo è un messaggio pari alla tristemente famosa boutade televisiva dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi “contro la precarietà bisogna trovarsi un marito ricco”.

Ma, sul tema delle politiche attive per il lavoro, a forza di rincorrere le emergenze, non ci troviamo come Sistema Paese sempre più lontani dall’obiettivo auspicato di avere il massimo possibile degli occupati? Forse non dovremmo smetterla di trovare un facile consenso populista che rischia di incoraggiare dei comportamenti opportunistici? Non dovremmo cominciare a spezzare i circoli viziosi?

Se nella fascia pedemontana lombarda, la disoccupazione è sempre stata inferiore alla media italiana, il merito è per una forza lavoro preparata, non di certo per incentivi, i cui costi gravano sui migliori.

Finché non si capirà che questa crisi economica non è congiunturale, ma strutturale e che è necessario trattare l’Italia come un paese emergente, dove le regole si scrivono da zero con il coraggio di abbattere completamente le sovrastrutture create per un mondo che non c’è più, rimarremo intrappolati in questo triste limbo.

Roger Abravanel ha scritto un libro dal titolo “Meritocrazia” che inizia con questa frase “Il merito? Ah, ma in Italia non esiste! Lo sappiamo tutti, il nostro è il paese delle raccomandazioni, delle clientele, delle famiglie, delle caste, delle corporazioni, delle oligarchie, delle mafie”.  Possiamo dargli torto?

Possiamo però invertire la rotta incentivando i più giovani ad andare verso l’eccellenza, ad impegnarsi nello studio e nel lavoro; permettendo al mercato del lavoro di funzionare secondo un sistema di merito, che preveda anche il demerito, ovvero lasciando libertà alle aziende e alla pubblica amministrazione di assumere i migliori e di poter congedare i fannulloni.

Chi vuole rimanere in Italia, non è interessato ad un Repubblica fondata sul lavoro (se a questo ci si raggiunge per raccomandazioni o per ipocriti egualitarismi che appiattiscono verso il basso), ma è interessato ad una Repubblica fondato sul Merito.

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