Ho tante ragioni per essere grato e onorato della vostra decisione di attribuirmi oggi il Premio De Gasperi. La sua figura, nel ricordo della sua esperienza, ci trasmette un messaggio ispirato, forte, convinto: “In Europa si va avanti insieme nella libertà”.
Le radici di questo messaggio affondano nella storia europea del secolo scorso.
La ragione ultima di esistenza di un governo consiste nell’offrire ai propri cittadini sicurezza fisica ed economica e, in una società democratica, nel preservare le libertà e i diritti individuali insieme a un’equità sociale che rispecchi il giudizio degli stessi cittadini.
Coloro che nel secondo dopoguerra volsero lo sguardo all’esperienza dei trent’anni precedenti conclusero che quei governi emersi dal nazionalismo, dal populismo, da un linguaggio in cui il carisma si accompagnava alla menzogna, non avevano dato ai loro cittadini sicurezza, equità, libertà; avevano tradito la ragione stessa della loro esistenza.
Nel tracciare le linee dei rapporti internazionali tra i futuri governi, De Gasperi e i suoi contemporanei conclusero che solo la cooperazione tra i paesi europei nell’ambito di una organizzazione comune poteva garantire la sicurezza reciproca dei loro cittadini.
La democrazia all’interno di ogni paese non sarebbe stata sufficiente; l’Europa aveva anche bisogno di democrazia tra le sue nazioni. Era chiaro a molti che erigere steccati tra paesi li avrebbe resi più vulnerabili, anche per la loro contiguità geografica, meno sicuri; che ritirarsi all’interno dei propri confini avrebbe reso i governi meno efficaci nella loro azione.
Dalle parole che De Gasperi pronunciò in vari discorsi in quegli anni traspare la sua visione di come doveva caratterizzarsi questo processo comunitario.
Le sfide comuni andranno affrontate con strategie sovranazionali anziché intergovernative. All’Assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) del 1954 De Gasperi afferma: dal 1919 al 1939 sono stati conclusi circa settanta trattati intergovernativi e tutti si sono ridotti a carta straccia quando si è dovuti passare alla loro attuazione, perché mancava il controllo congiunto delle risorse comuni[1]. L’esperienza dei politici trovava riscontro nelle analisi di eminenti economisti, fra cui Ragnar Nurkse, che mettevano in luce come i trattati intergovernativi finissero per fomentare il protezionismo.
L’integrazione doveva prima di tutto rispondere ai bisogni immediati dei cittadini. Sempre nelle sue parole: dobbiamo iniziare mettendo in comune soltanto lo stretto indispensabile per la realizzazione dei nostri obiettivi più immediati, e farlo mediante formule flessibili che si possano applicare in modo graduale e progressivo.
L’azione comunitaria andava concentrata in ambiti in cui era chiaro che l’azione individuale dei governi non fosse sufficiente: il controllo congiunto delle materie prime della guerra, in particolare carbone e acciaio, costituì uno dei primi esempi.
In tal modo i padri del progetto europeo furono capaci di coniugare efficacia e legittimazione. Il processo era legittimato dal consenso popolare e trovava il sostegno dei governi: il progetto era diretto verso obiettivi in cui l’azione delle istituzioni europee e i benefici per i cittadini erano direttamente e visibilmente connessi; l’azione comunitaria non limitava l’autorità degli Stati membri, ma la rafforzava e trovava quindi il sostegno dei governi.
A incoraggiare De Gasperi e i suoi contemporanei non fu solo l’esperienza fallimentare del passato, furono anche gli immediati successi a cui portarono queste prime fondamentali decisioni del dopoguerra.
I risultati ottenuti lavorando insieme
La costruzione della pace, questo risultato fondamentale del progetto europeo, produsse immediatamente crescita, iniziò la strada verso la prosperità. Al suo confronto stanno le devastazioni dei due conflitti mondiali.
Il PIL pro capite in termini reali si riduce del 14% durante la Prima guerra mondiale e del 22% durante la Seconda, annullando gran parte della crescita degli anni precedenti.
L’integrazione economica costruita su questa pace produce a sua volta miglioramenti significativi nel tenore di vita. Dal 1960 la crescita cumulata del PIL pro capite in termini reali è stata superiore del 33% negli UE 15 rispetto agli Stati Uniti. Nei paesi europei più poveri il tenore di vita converge verso i livelli dei più ricchi.
I cittadini dell’UE acquistano il diritto di vivere, lavorare e studiare in qualsiasi paese dell’Unione; con l’istituzione delle corti di giustizia europee beneficiano dello stesso livello di tutela ovunque si trovino.
Il mercato unico, uno dei principali successi del progetto europeo, non è mai stato soltanto un progetto diretto ad accrescere l’integrazione e l’efficienza dei mercati. È stata soprattutto una scelta dei valori rappresentati da una società libera e aperta, una scelta dei cittadini dell’Unione Europea.
Il progetto europeo ha sancito le libertà politiche, ha fin dall’inizio promosso il principio della democrazia liberale. Garante dei principi democratici, è stato il punto di riferimento per paesi che volevano sottrarsi alla dittatura o al totalitarismo; così è stato per la Grecia, il Portogallo, la Spagna o i paesi dell’Europa centrale e orientale. I criteri di Copenaghen e la Carta dei diritti fondamentali assicurano che tutti i paesi dell’UE rispettino principi politici ben definiti, iscritti nelle leggi nazionali ed europee.
Non è dubbio che queste libertà abbiano immensamente contribuito al benessere dell’Europa. È anche per queste libertà, che oggi flussi imponenti di rifugiati e di migranti cerchino il loro futuro nell’Unione Europea.
L’integrazione europea ha assicurato ai propri cittadini molti anni di sicurezza fisica ed economica, forse più di quanto non sia mai avvenuto nella storia dell’Europa, diffondendo e instillando al tempo stesso i valori di una società aperta. I cittadini europei che hanno iniziato questo processo e noi che lo abbiamo vissuto abbiamo dimostrato al mondo che sicurezza e libertà non sono in antitesi. Radicando la democrazia abbiamo assicurato la pace.
Nuove sfide per l’Europa
Una insoddisfazione crescente nei confronti del progetto europeo ha però caratterizzato gli ultimi anni del suo percorso. Con il referendum del 23 giugno i cittadini del Regno Unito hanno votato a favore dell’uscita dall’Unione europea.
Per alcuni dei paesi dell’Unione questi sono stati anni che hanno visto: la più grave crisi economica del dopoguerra, la disoccupazione, specialmente quella giovanile, raggiungere livelli senza precedenti in presenza di uno stato sociale i cui margini di azione si restringono per la bassa crescita e per i vincoli di finanza pubblica. Sono anni in cui cresce, in un continente che invecchia, l’incertezza sulla sostenibilità dei nostri sistemi pensionistici. Sono anni in cui imponenti flussi migratori rimettono in discussione antichi costumi di vita, contratti sociali da tempo accettati, risvegliano insicurezza, suscitano difese.
La disaffezione ha certamente anche altre cause: la fine dell’Unione Sovietica, la conseguente scomparsa della minaccia nucleare hanno distolto l’attenzione dalla nozione di “sicurezza nei numeri”. Il riequilibrio delle forze tra le nazioni più grandi, le continue tensioni geopolitiche, le guerre, il terrorismo, gli stessi cambiamenti negli equilibri climatici, gli effetti del continuo, incalzante progresso tecnologico: in un breve arco di tempo tutti questi fattori interagiscono con le conseguenze economiche della globalizzazione, in un mondo disattento verso la distribuzione dei suoi pur straordinari benefici. Mentre nelle economie emergenti questa ha riscattato dalla tirannia della povertà miliardi di persone, nelle economie avanzate il reddito reale della parte più svantaggiata della popolazione è rimasto ai livelli di qualche decina di anni fa. Il senso di abbandono provato da molti non deve sorprendere. L’ansia è crescente. Le risposte politiche a essa date talvolta richiamano alla memoria il periodo tra le due guerre: isolazionismo, protezionismo, nazionalismo. Era già successo in passato. Sul finire della prima fase di globalizzazione, all’inizio del XX secolo, diversi paesi, compresi quelli con una tradizione di immigrazione come l’Australia o gli Stati Uniti, introdussero restrizioni all’immigrazione, in risposta alla paura delle classi operaie di perdere il posto di lavoro a causa dei nuovi arrivati disposti a lavorare per salari più bassi. Ma il biasimo, il rifiuto di queste risposte, pur giustificato, non deve impedire una disamina delle cause della minore partecipazione al progetto europeo.
Di nuovo la lungimiranza delle parole di De Gasperi ci aiuta a capire:
“Se noi costruiremo soltanto amministrazioni comuni, senza una volontà politica superiore vivificata da un organismo centrale, nel quale le volontà nazionali si incontrino (…) rischieremo che questa attività europea appaia, al confronto della vitalità nazionale particolare, senza calore, senza vita ideale potrebbe anche apparire ad un certo momento una sovrastruttura superflua e forse anche oppressiva”.
L’impianto dell’integrazione europea è saldo, i suoi valori fondamentali continuano a restarne la base, ma occorre orientare la direzione di questo processo verso una risposta più efficace e più diretta ai cittadini, ai loro bisogni, ai loro timori e meno concentrata sulle costruzioni istituzionali. Queste sono accettate dai cittadini non per se stesse ma solo in quanto strumenti necessari a dare questa risposta.
In altre occasioni è stata invece l’incompletezza istituzionale che non ha permesso di gestire il cambiamento imposto dalle circostanze esterne nel miglior modo possibile. Si pensi all’Accordo di Schengen. Pur avendo eliminato in larga parte le frontiere interne dell’Europa, non ha previsto un rafforzamento di quelle esterne. Pertanto l’insorgere della crisi migratoria è stato percepito come una perdita di sicurezza destabilizzante.
A questi bisogni, a questi timori l’Unione Europea, gli Stati nazionali hanno dato una risposta finora carente. I sondaggi, assieme al calo del sostegno all’integrazione economica europea, mostrano un’opinione pubblica che ha meno fiducia nell’Unione Europea e ancor meno negli Stati nazionali.
Ciò non vale solo per l’Europa. I dati segnalano che anche negli Stati Uniti è diminuita la fiducia dei cittadini verso quasi tutte le istituzioni: la Presidenza, il Congresso e la Corte Suprema[6]. Il fatto che si tratti di un fenomeno mondiale non può però essere di giustificazione per noi europei, perché noi soli nel mondo abbiamo costruito un’entità sovranazionale con la certezza che solo con essa gli Stati nazionali avrebbero dato quelle risposte che non erano stati capaci di dare da soli.
L’Europa può ancora essere la risposta?
La domanda è semplice ma fondamentale: lavorare insieme è ancora il modo migliore per superare le nuove sfide che ci troviamo a fronteggiare?
Per varie ragioni, la risposta è un sì senza condizioni. Se le sfide hanno portata continentale, agire esclusivamente sul piano nazionale non basta. Se hanno respiro mondiale, è la collaborazione trai i suoi membri che rende forte la voce europea.
Il recente negoziato sul cambiamento climatico sia di esempio. La questione globale può essere affrontata solo attraverso politiche coordinate a livello internazionale. La massa critica di un’Europa che parla con una voce sola ha condotto a risultati ben oltre la portata dei singoli paesi. Solo la spinta esercitata dai paesi europei che hanno presentato un fronte comune ha permesso il successo della conferenza sul clima di Parigi. Solo l’esistenza dell’Unione Europea ha permesso la costruzione di questo fronte comune.
In un mondo in cui la tecnologia riduce le barriere fisiche, l’Europa esercita la sua influenza anche in altri modi. La capacità dell’Europa, con il suo mercato di 500 milioni di consumatori, di imporre il riconoscimento dei diritti di proprietà a livello mondiale o il rispetto dei diritti alla riservatezza in Internet è ovviamente superiore a ciò che un qualsiasi Stato membro potrebbe sperare di ottenere da solo.
La sovranità nazionale rimane per molti aspetti l’elemento fondamentale del governo di un paese. Ma per ciò che riguarda le sfide che trascendono i suoi confini, l’unico modo di preservare la sovranità nazionale, cioè di far sentire la voce dei propri cittadini nel contesto mondiale, è per noi europei condividerla nell’Unione Europea che ha funzionato da moltiplicatore della nostra forza nazionale.
Quanto alle risposte che possono essere date soltanto a livello sovranazionale, dovremmo adottare lo stesso metodo che ha permesso a De Gasperi e ai suoi contemporanei di assicurare la legittimazione delle proprie azioni: concentrarsi sugli interventi che portano risultati tangibili e immediatamente riconoscibili.
Tali interventi sono di due ordini.
Il primo consiste nel portare a termine le iniziative già in corso, perché fermarsi a metà del cammino è la scelta più pericolosa. Avremmo sottratto agli Stati nazionali parte dei loro poteri senza creare a livello dell’Unione la capacità di offrire ai cittadini almeno lo stesso grado di sicurezza.
Un autentico mercato unico può restare a lungo libero ed equo solo se tutti i soggetti che vi partecipano sottostanno alle stesse leggi e regole e hanno accesso a sistemi giudiziari che le applichino in maniera uniforme. Il libero mercato non è anarchia; è una costruzione politica che richiede istituzioni comuni in grado di preservare la libertà e l’equità fra i suoi membri. Se tali istituzioni mancheranno o non funzioneranno adeguatamente, si finirà per ripristinare i confini allo scopo di rispondere al bisogno di sicurezza dei cittadini.
Pertanto, per salvaguardare una società aperta occorre portare fino in fondo il mercato unico.
Ciò che rende oggi questa urgenza diversa dal passato è l’attenzione che dovremo porre agli aspetti redistributivi dell’integrazione, verso coloro che più ne hanno pagato il prezzo. Non credo ci saranno grandi progressi su questo fronte e più in generale sul fronte dell’apertura dei mercati e della concorrenza se l’Europa non saprà ascoltare l’appello delle vittime in società costruite sul perseguimento della ricchezza e del potere; se l’Europa, oltre che catalizzatrice dell’integrazione e arbitra delle sue regole non divenga anche moderatrice dei suoi risultati. È un ruolo che oggi spetta agli stati nazionali, che spesso però non hanno le forze per attuarlo con pienezza. È un compito che non è ancora definito a livello europeo ma che risponde alle caratteristiche delineate da De Gasperi: completa l’azione degli Stati nazionali, legittima l’azione europea. Le recenti discussioni in materia di equità della tassazione, e quelle su un fondo europeo di assicurazione contro la disoccupazione, su fondi per la riqualificazione professionale e su altri progetti con la stessa impronta ideale vanno in questa direzione.
Ma poiché l’Europa deve intervenire solo laddove i governi nazionali non sono in grado di agire individualmente, la risposta deve provenire in primo luogo dal livello nazionale. Occorrono politiche che mettano in moto la crescita, riducano la disoccupazione e aumentino le opportunità individuali, offrendo nel contempo il livello essenziale di protezione dei più deboli.
In secondo luogo, se e quando avvieremo nuovi progetti comuni in Europa, questi dovranno obbedire agli stessi criteri che hanno reso possibile il successo di settant’anni fa: dovranno poggiare sul consenso che l’intervento è effettivamente necessario; dovranno essere complementari all’azione dei governi; dovranno essere visibilmente connessi ai timori immediati dei cittadini; dovranno riguardare inequivocabilmente settori di portata europea o globale.
Se si applicano questi criteri, in molti settori il coinvolgimento dell’Europa non risulta necessario. Ma lo è invece in altri ambiti di chiara importanza, in cui le iniziative europee sono non solo legittime ma anche essenziali. Tra questi oggi rientrano, in particolare, i settori dell’immigrazione, della sicurezza e della difesa.
Entrambi gli ordini di interventi sono fondamentali, poiché le divisioni interne irrisolte, che riguardano ad esempio il completamento dell’UEM, rischiano di distrarci dalle nuove sfide emerse sul piano geopolitico, economico e ambientale. È un pericolo reale nell’Europa di oggi, che non ci possiamo permettere. Dobbiamo trovare la forza e l’intelligenza necessarie per superare i nostri disaccordi e andare avanti insieme.
A tal fine dobbiamo riscoprire lo spirito che ha permesso a pochi grandi leader, in condizioni ben più difficili di quelle odierne, di vincere le diffidenze reciproche e riuscire insieme anziché fallire da soli.
In conclusione torno a citare Alcide De Gasperi, le cui parole conservano dal 1952 a oggi tutta la loro attualità:
La cooperazione economica è certamente il risultato del compromesso tra desiderio naturale di indipendenza di ogni partecipante e aspirazioni politiche preminenti. Se la cooperazione economica europea fosse dipesa dai compromessi avanzati dalle varie amministrazioni coinvolte, saremmo incappati probabilmente in debolezze e incoerenze. È dunque l’aspirazione politica all’unità a dover prevalere. Deve guidarci anzitutto la consapevolezza fondamentale che la costruzione di un’Europa unita è essenziale per assicurarci pace, progresso e giustizia sociale.